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Il Fallaci d'Egitto PDF Stampa E-mail

31 marzo 2008

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Credevo che il passaggio di Giuliano Ferrara nel fronte degli antiabortisti d’assalto, addirittura alla guida di un partito ad hoc, ed il suo incontro con il Papa rappresentassero la vetta inarrivabile dell’ipocrisia, della faccia di bronzo, della mancanza di senso del ridicolo. Invece, come sempre, non c’è limite al peggio.
In questi giorni scopriamo che anche il Fallaci d’Egitto è stato illuminato dalla fede cristiana e ha deciso di far sapere ai lettori del Corrierino della Sera della sua meditata e profonda conversione. Quest’ultimo termine implica però che vi sia stato un passaggio; se è chiaro il punto di approdo (il cristianesimo, appunto), non lo è altrettanto quello di partenza.
Cos’era insomma Magdi "Cristiano" Allam prima di scoprire la sua nuova vocazione? Del resto, tutta la carriera del vicedirettore ("ad personam") del quotidiano di Via Solferino è all’insegna di improvvisi quanto incomprensibili passaggi e cambi di bandiera.
Nasce egiziano e poi scopre di amare l’Italia più degli italiani stessi. Scrive sulle pagine della sinistrorsa Repubblica e poi si ritrova al Corrierino a sfornare pezzi così intrisi di razzismo da fare invidia a un Goebbels. Da illustre Signor Nessuno del giornalismo, diventa editorialista dei due principali giornali italiani, e ciò malgrado le sue doti di scrittura, la capacità argomentativa e la profondità dei contenuti siano da licenza media. Non c’è nessun bisogno di leggere un suo articolo per sapere cosa c’è scritto: da anni Allam non fa che ripeterci che l’Occidente buono ma troppo arrendevole è minacciato all’esterno, e anche al suo interno, dai cattivoni islamici che devono essere zittiti, espulsi (se hanno commesso l’errore di farli entrare a casa nostra) e in qualche caso (vedi Iran) pure bombardati con l’atomica. Viene spacciato per esperto della materia, ma in realtà le sue conclusioni sono fondate su elementi di fatto tanto noti quanto banali... da Langley potrebbero almeno fare lo sforzo di mandargli delle veline un tantino più approfondite.
Insomma, non vorranno farci credere che Allam, oltre che egiziano, giornalista e indipendente, fosse pure musulmano...

Andrea Marcon

 
L'apologo di Osama PDF Stampa E-mail

28 marzo 2008

Franco Cardini è un medievalista di fama. Cattolico (ma del cattolicesimo migliore: tradizionale e tollerante), un tempo lo si sarebbe definito un conservatore. Oggi, saltate tutte le convenzioni che etichettavano la scena intellettuale e politica europea, lo si può tranquillamente definire un rivoluzionario. Anzi, meglio: un ribelle. Perchè Cardini, come noi e come altri, non si piega allo sclerotizzante senso comune che raffigura il mondo in una guerra di civiltà fra l'Occidente "buono" e moderno e un Islam "cattivo" e antimoderno (e lo stesso discorso vale per tutte quelle sacche di resistenza di popoli e culture che non si piegano al diktat della globalizzazione e della tecnoeconomia). Ascoltatelo, in questa e nelle altre tranches di un suo intervento pubblico in cui parla dei rapporti fra noi e i musulmani. (a.m.)

 
Dieci, cento, mille rave party PDF Stampa E-mail

27 marzo 2008

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Premetto che in fatto di droghe sono sempre stato antiproibizionista, in modo assoluto e totale. Legalizzare il consumo di stupefacenti, di qualsiasi tipo, è l’unico modo per liberarli da quell’aura di piacere proibito che tanto li rende desiderabili.
In secondo luogo, e soprattutto, ciò significherebbe togliere alla criminalità internazionale un’immensa fonte di guadagno, distruggendone quasi completamente reti ed attività, con un guadagno altrettanto immenso per la sicurezza, la legalità e l’ordine pubblico nelle nostre città e in quelle di tutto il mondo.
Detto ciò, la domanda è un’altra: ma perché eliminarle? Ma l’avete mai visto un rave? Da vicino io no di certo, ma spesso la tv ce ne ha mostrato ampi ed istruttivi squarci: capannoni in disuso, merde, mucchi di spazzatura che brucia, macerie, luridume. In mezzo, un muro di amplificatori al massimo, e davanti folle di umanoidi, presumibilmente altrettanto luridi, che si agitano scimmiescamente per ore, col cervello devastato dal rumore (lo Spirito di Mozart mi impedisce di chiamarla musica) e il corpo pieno di ogni possibile sporcizia. Qualsiasi cosa, pur di uscire dall’umano.
Lo facevano anche gli sciamani, direte. Sì, ma qui non c’è nessun “baccanale che libera dalle regole, sfrena i corpi e accende gli spiriti”, come dice Michele Serra in uno dei suoi insopportabili fondi sociologistici su Repubblica. Non ci sono nemmeno “l’energia e l’adrenalina delle masse giovanili urbane” e neanche la “trance sciamanica”, appunto.
C’è solo una generazione che non sa che fare di se stessa, che ha reciso ferocemente ogni radice col passato e rifiuta pervicacemente ogni volontà di futuro.
C’è una "cultura" che rappresenta solo, a partire dai luoghi stessi in cui officia questi suoi riti demoniaci, il trionfo devastante della Modernità, che celebra il suo misero gotterdammerung (lasciatemelo scrivere minuscolo, per favore) in mezzo ai suoi stessi rifiuti, e che si droga alla follia per non vedere e non sapere, per non capire, per non volere. E dunque, perché impedirlo?
Qualcuno muore? Va bene così: è la selezione naturale della specie. Chi vuole si salva, chi non vuole si ammazza. L‘insieme degli esseri umani non può che guadagnarne. Dieci-cento-mille rave party.

Giuliano Corà

 
Reportage dalla Colombia PDF Stampa E-mail

26 marzo 2008

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di Ettore Casadei

Il 4 febbraio 2008, al grido “No más secuestros!”, la Colombia è scesa in piazza per protestare contro i sequestri perpetrati dalle Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie, guerriglia comunista nata negli Anni Sessanta in piena guerra fredda. L’iniziativa è stata lanciata, sembra, da uno studente su internet, al fine di ottenere la liberazione di Ingrid Betancurt e degli altri ostaggi in mano alla guerriglia (più di 700).
Il tam tam mediatico ha portato migliaia di persone nelle piazze di tutta la Colombia. Con alcune di esse ho potuto parlare (in quei giorni ero in Colombia), e mi hanno detto che non si era mai vista, per lo meno non negli ultimi decenni, una manifestazione di questa portata. “Siamo stanchi della guerriglia, non ne abbiamo più bisogno. Io ero in piazza a urlare perché sono stanco di guerra, sequestri e omicidi. E se ci sarà una manifestazione contro i paramilitari, scenderò in piazza anche contro di loro”, mi ha detto un manifestante. Nel solo 2007 sono stati registrati più di 17.000 omicidi, 500 sequestri e 184.000 persone sfollate per il conflitto armato interno (secondo le organizzazioni umanitarie ci sono più di 3 milioni di sfollati).
La Colombia è uno dei paesi più ricchi del mondo in quanto a risorse naturali, ha la più grande riserva idrica planetaria, possiede parte della foresta Amazzonica e parte dei quella del Chocó. Ha un’importanza strategica enorme, visto che si affaccia sui due oceani Pacifico e Atlantico ed è la porta d’ingresso al Sudamerica da Panama.
E’ una Repubblica presidenziale decentrata, con autonomia amministrativa delle entità territoriali, che non vede cadute di governo da tempo immemorabile. Esiste un apparato legale complesso e ben articolato, e la Costituzione del 1991 è considerata una delle migliori del mondo. A una ragazza italiana che, al mio ritorno, mi chiese se in Colombia fosse arrivata un po’ di democrazia risposi: “Anche troppa”.
Dietro a questo apparato democratico apparentemente funzionante si nasconde però la decadenza di un paese che, politicamente parlando, conosce solo violenza e corruzione da più di 50 anni. È l’unico paese al mondo, ad esempio, dove viene studiata la violentologia nelle università. Il narcotraffico, bandiera internazionale della Colombia sventolata energicamente da Pablo Escobar, uno dei più grandi narcotrafficanti della storia (ucciso nel 1993), è in costante aumento nonostante le fumigazioni del Plan Colombia. A titolo di esempio, nel solo dipartimento di Antioquia, la cui capitale è Medellín, si è passati da circa 3.000 a più 6.000 ettari coltivati a coca dal 2003 al 2006.
Il presidente attuale della Colombia, Alvaro Uribe Vélez, è al suo secondo mandato, e si è prefissato lo scopo di eliminare la guerriglia delle Farc: unico modo, dice, per riportare la pace e la prosperità alla Colombia. Durante il suo primo governo ha iniziato la smobilitazione delle forze di autodifesa, meglio conosciute come paramilitari (anch’esse inserite nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali). Oggi si può dire che la smobilitazione - che aveva lo scopo ufficiale del reinserimento sociale - sia stata un fallimento completo: le autodifese si stanno riorganizzando e stanno crescendo, hanno solo cambiato nome: ora si chiamano aguilas negras, aquile nere.

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La recessione alle porte/1 PDF Stampa E-mail

21 marzo 2008

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La notizia del tonfo della Bear Stearns ha fatto il giro del mondo. Il semi-crac di una delle cinque maggiori banche d'affari americane ha fatto versare fiumi di inchiostro sui quotidiani di mezzo mondo. Ma quanto alle analisi ci sarebbe molto da dire. Per di più i media italiani non hanno approfondito bene l'argomento. Un po' perché non hanno capito, un po' perché la realtà nuda e cruda spaventa i potentati finanziari anche a casa nostra.
Per evitare il collasso del sistema bancario statunitense, la banca centrale del Paese a stelle e strisce è dovuta pesantemente intervenire «per rimodulare le garanzie degli gli asset di BS», si direbbe in perfido slang yuppie. In realtà per evitare il tracollo di una privatissima banca, la banca centrale americana ha dovuto usare i soldi del contribuente per garantire la stabilità, solo temporanea del suo sistema finanziario. Una classica manovra da stato dirigista che messa in pratica dalla nazione vessillo del turboliberismo fa ridere e piangere al tempo stesso. Fa ridere perché i seriosi analsiti finanziari anglosassoni (e i più pacchiani italici) hanno scientemente tenuto mimetizzata la cosa. Fa piangere, perché lo spettro della crisi americana rischia di ripercuotersi a valanga su mezzo mondo.
Ma la questione è ben più profonda. L'intervento della banca centrale Usa (a che titolo il governatore Bernanke adopera i soldi di un ipotetico signor Smith?) è la prova provata del fallimento del capitalismo che in questi anni, privo di altri contropoteri ideologici, si è mostrato per quel che è: uso disinvolto delle risorse degli altri mescolato con la cortina fumogena del conformismo mediatico e del consumismo «annebbiacervello».
Il tutto condito con la violazione sistematica di regole di per sé già allentate da un sistema politico ormai infeudato. Il problema è profondo. Anzitutto perché non c'è la possibilità di andare negli armadi a rispolverare vecchi arnesi della storia come il comunismo. Altro mostro, come il capitalismo, uscito dallo sfintére della rivoluzione industriale. E la prospettiva non è nemmeno quella che si intravede in India e soprattutto in Cina.
In quest'ultimo paese le ideologie, non più utili a mascherare l'essenza del mainstream della società moderna, sono state messe in soffitta dalle elite dirigenti: per loro conta solo il potere, il profitto e il consumo. Tesi antitesi e sintesi di un meccanismo perverso creato dall'uomo che però ha acquisito sostanza extrafisica propria. Si realizza in pieno la teoria sulla sopravvivenza delle organizzazioni di Max Weber.
Difficile dire ciò che ci aspetta. Impossibile come rimettersi a dire che bene che si stava 500 anni fa, come crede qualche asceta della premodernità (cosa diversa dall'antimodernità). Ritorniamo pagani, ritorniamo sotto l'ala protrettrice della Chiesa, ritorniamo comunisti, ritorniamo primitivi.
Fesserie. I processi creati dall'uomo vanno ricondotti dall'uomo stesso alla ragionevolezza (alla Ragione, che non è la la Razionalità della Tecnica). Non esistono sistemi totali per capire il mondo. Bisogna decrescere. Essere meno. Nascere meno. Consumare meno. Liberarsi dei miti della crescita infinita, del consumo del superfluo e cretino. Sembra facile, ma probabilmente è il più forte atto di volontà al quale l'uomo sia stato chiamato. E le possibilità di riuscita sono scarse.

Marco Milioni

 
Tibet libero/2 PDF Stampa E-mail

19 marzo 2008

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Tibet in fiamme che si batte per l’autodeterminazione.
Lasciamo stare il tempismo del sempre più ridicolo signor Bush nel cancellare due giorni prima dell’inizio della rivolta la Cina dalla lista nera degli Stati violatori dei diritti umani. Ci saremmo aspettati quantomeno minacce di sanzioni, come per gli stati-microbi come la Birmania. A quanto pare prevale, come al solito, una politica dei due pesi e delle due misure. Pecunia non olet: la Cina controlla il debito pubblico degli Usa, dopotutto.
Difficile aggredire anche solo a parole l’economia più forte degli ultimi due decenni, dove lucrano sfruttandone i lavoratori migliaia di aziende occidentali. Ancor più difficile minacciare di sanzioni un paese che coi suoi fondi sovrani da 200 miliardi di dollari e con la sua crescita al galoppo può far tremare il sistema economico mondiale.
Eppure tutti a spendere parole ipocrite di solidarietà al Dalai Lama, salvo poi leggere le dichiarazioni di Renzo Rosso (quello dei jeans Diesel), che condanna le violenze cinesi e poi si vanta dei successi commerciali ottenuti dalla sua azienda nella penetrazione del mercato giallo.
Le Olimpiadi? Chi dice di boicottarle tanto per cavalcar l’onda e proporsi come ennesimo paladino del popolo tibetano; chi di andarci perché sono un occasione per far pressione su Pechino sui diritti umani. Una volta finite, sarebbe interessante chiedere a questi ultimi una relazione sulle attività da loro concretamente svolte per esercitare tali pressioni durante i giochi... O forse gli atleti saranno troppo spaventati dalle minacce della federazione atletica inglese, che ha fatto sapere alla sua pattuglia olimpica che chi tirerà fuori questioni non gradite agli ospitanti sarà escluso dai giochi?
Il Dalai Lama è disposto pure a sacrificarsi, dimettendosi se questo giova alla causa del suo popolo, che i cinesi opprimono prendendo lui come capro espiatorio. Cinesi: disposti a tutto, pur di non mollare l’osso. Dopotutto, non sono nemmeno più comunisti: sono capitalisti corretto dittatura. Il peggio del peggio.

P.S. Ma il Dalai Lama, povera anima disdegnata da Prodi pochi mesi fa, lo capirà che finché non entra nel Wto e comincia a far aumentare il Pil del paese a cui chiede aiuto, non se lo filerà nessuno?

Alessandro Marmiroli

 
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